ITALIKUM, LE RAGIONI DEL NO

italicum

Adesso che la riforma elettorale (italicum) è stata trasformata in legge (L. 6 maggio 2015 n. 52) il discorso sul sistema elettorale del nostro Paese  non è chiuso.

Per l’italicum si è voluto procedere a tappe forzate, ricorrendo addirittura alla fiducia, come avvenne nel 1953 per la legge truffa, evidentemente per nascondere sotto l’asfalto del decisionismo governativo le scorie tossiche (per la democrazia) del nuovo sistema ed evitare ogni reale dibattito.

E tuttavia, proprio com’è accaduto per il porcellum, è l’insostenibilità costituzionale e politica del nuovo sistema che rende necessario riaprire il dibattito per far emergere le storture che devono essere corrette.

La legge elettorale, lungi dal rappresentare un’asettica tecnica di selezione della rappresentanza, è il principale strumento attraverso il quale si realizza un ordinamento rappresentativo e viene data concreta attuazione al principio supremo posto dall’art. 1 della Costituzione che statuisce: “la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione”..

Orbene la Corte Costituzionale, con una pronuncia storica è intervenuta nel campo del diritto elettorale, riconoscendo che anche questo terreno squisitamente politico deve essere coerente con i principi costituzionali e con diritti politici del cittadino.

E’ da qui che bisogna partire per giudicare la sostenibilità del nuovo sistema elettorale.

La Corte costituzionale con la sentenza 1/2014 ha dichiarato incostituzionali due istituti della legge Calderoli:

  • le liste bloccate, riconoscendo ai cittadini elettori il diritto di scegliersi i propri rappresentanti esprimendo (almeno) una preferenza;

  • il meccanismo  che attribuiva alla minoranza “vincente” un premio di maggioranza senza soglia minima.

La Corte non ha contestato di per sé qualsiasi meccanismo correttivo dei voti espressi  attraverso un premio di maggioranza, ma ha dichiarato costituzionalmente intollerabile che possa essere attribuito un premio di maggioranza “senza soglia” perchè l’effetto sarebbe quello di produrre una distorsione enorme fra la volontà espressa dagli elettori ed il risultato in seggi, determinando un vulnus intollerabile all’eguaglianza del voto e al principio stesso della sovranità popolare.

Nessun sistema elettorale è in grado di assicurare una perfetta corrispondenza fra i voti espressi ed i seggi conseguiti da ciascuna forza politica che partecipa all’agone elettorale. Questo però non consente di buttare a mare il principio espresso dall’art. 48 della Costituzione secondo cui il voto è libero ed uguale, diretta conseguenza del principio di eguaglianza e di partecipazione espresso dall’art. 3 Cost.

La legge Calderoli aveva istituzionalizzato la diseguaglianza dei cittadini italiani nel voto, attraverso il meccanismo previsto dall’art. 83 che prevedeva la formazione di un “quoziente di maggioranza” e di un “quoziente di minoranza”.

Nelle elezioni del 2013 il quoziente di maggioranza è stato di circa 29.000 voti, mentre quello di minoranza è stato superiore a 80.000 voti (cioè per eleggere un deputato nei partiti “premiati” sono stati sufficienti 29.000 voti popolari, mentre per eleggere un deputato per tutti gli altri partiti sono occorsi più di 80.000 voti popolari)  Il rapporto fra i due quozienti è stato di 2,66. Basti pensare che il PD con 8.646.457 voti (25,42%) ha ottenuto 292 seggi (pari al 47%) mentre il Movimento 5 stelle con 8.704.969 (25,56%) ha ottenuto 102 seggi (pari al 16,5%).

La Consulta ha dichiarato incostituzionale il porcellum proprio per evitare il ripetersi di una simile insostenibile distorsione fra la volontà espressa dal popolo italiano ed i risultati in termini di composizione della Camera rappresentativa.

Orbene l’Italicum finge di adeguarsi alle prescrizioni della Corte sia per quanto riguarda le liste bloccate, sia per quanto riguarda il premio di maggioranza, ma in realtà si sbarazza dei paletti che la Consulta ha posto alla discrezionalità del legislatore, riesumando una versione peggiorata del porcellum.

L’italicum apparentemente abbandona il sistema delle liste bloccate (in cui i deputati sono eletti in base all’ordine di lista, senza che l’elettore possa mettervi becco), rendendo bloccati “soltanto”i capilista, mentre gli altri deputati vengono eletti sulla base delle preferenze. Però c’è un trucco. Vengono creati 100 collegi di dimensioni variabili da tre a sei seggi. Poiché difficilmente un partito elegge, in collegi così ridotti, più di un deputato, ecco che buona parte dei deputati non saranno scelti dagli elettori con il voto di preferenza ma saranno direttamente “nominati”dai capi dei partiti.

Ma ancor maggiore è lo scostamento dalle prescrizioni della Consulta in tema di premio di maggioranza. Anche in questo versante l’italicum finge di adeguarsi perchè introduce una soglia minima al premio di maggioranza (40%), con ciò legittimando, peraltro, un premio di maggioranza notevolissimo (il 15%, pari a circa 90 seggi), equivalente a quello stabilito dalla legge truffa. Nella realtà quest’adeguamento viene rinnegato con un trucco. Alle elezioni del 1953, la coalizione governativa non raggiunse per pochi voti la soglia minima (50%) ed il premio di maggioranza non scattò. Per evitare questo rischio il legislatore moderno ha risolto il problema, rendendo la soglia minima rimuovibile, attraverso l’istituto del ballottaggio su base nazionale fra le due liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti.

In questo modo l’italicum non solo non abolisce il meccanismo del premio di maggioranza senza soglia censurato dalla Corte costituzionale, ma addirittura lo esalta perché attribuisce il premio ad una unica lista, anziché alle coalizioni.

E’ questo l’aspetto più preoccupante della nuova legge elettorale.

L’italicum smantella ogni possibile coalizione perchè attribuisce il premio di maggioranza ad una sola lista. Per legge viene attribuita la maggioranza politica e la guida del Governo ad un solo partito, a prescindere dalla volontà del popolo sovrano. In questo modo viene reintrodotto nel nostro paese un sistema di governo basato sul partito unico.  Per rendersi conto della gravità di questa svolta, basti pensare che dal 24 aprile del 1944 (secondo governo Badoglio) ad oggi si sono sempre e solo succeduti governi di coalizione, o quantomeno sostenuti da una maggioranza di coalizione, mentre un governo del partito unico in Italia è esistito soltanto nel ventennio fascista. Fu proprio la legge elettorale dell’epoca (legge Acerbo) che consentì l’avvento di un partito unico al governo, attribuendo nelle elezioni del 1924 una maggioranza garantita al “listone”.

Poichè il sistema politico italiano non è bipolare, né tantomeno bipartitico il meccanismo elettorale congegnato è destinato a produrre naturalmente – soprattutto attraverso il ballottaggio – una fortissima distorsione fra la volontà espressa dal corpo elettorale ed i seggi conseguiti dalle singole forze politiche, istituzionalizzando la diseguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto di voto.

Le due simulazioni che seguono rendono più chiari gli effetti perversi di questo sistema.

Queste semplici considerazioni dimostrano che l’Italicum è una legge insostenibile poichè aggredisce i fondamenti della democrazia repubblicana e ferisce uno dei principi che non può essere oggetto di revisione costituzionale: quello dell’eguaglianza dei cittadini.  L’ aspetto più preoccupante dell’italicum è che attraverso questo percorso di manipolazione della rappresentanza viene cambiata profondamente la forma di governo e squilibrata ogni forma di contrappeso istituzionale poiché un solo partito – per legge – avrà in  mano le chiavi del governo e della maggioranza parlamentare. Senza mediare con nessuno, potrà determinare l’elezione del Presidente della Repubblica e attraverso di lui influire sulla composizione della Corte costituzionale, neutralizzandone la funzione di controllo. L’italicum è una pistola carica puntata alle tempie della democrazia.

Questa minaccia può essere disinnescata soltanto attraverso i due referendum abrogativi proposti dal Comitato per il No all’italicum ed è per questo che il Comitato, nato dal Coordinamento per la Democrazia Costituzionale ha lanciato la raccolta firme.

si

DIFENDI IL TUO MARE! AL REFERENDUM DEL 17 APRILE 2016 VOTA “SÌ”!

selterre

Il referendum del 17 aprile 2016
Il prossimo 17 aprile si terrà un referendum popolare. Si tratta di un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato.
Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto e che la maggioranza dei votanti si esprima con un “Sì”.
Hanno diritto di votare al referendum tutti i cittadini italiani che abbiano compiuto la maggiore età. Votando “Sì” i cittadini avranno la possibilità di cancellare la norma sottoposta a referendum.
Dove si voterà?
Si voterà in tutta Italia e non solo nelle Regioni che hanno promosso il referendum.
Al referendum potranno votare anche gli italiani residenti all’estero.
Quando si voterà?
Sarà possibile votare per il referendum soltanto nella giornata di domenica 17 aprile.
Cosa si chiede esattamente con il referendum del 17 aprile 2016?
Con il referendum del 17 aprile si chiede agli elettori di fermare le trivellazioni in mare. In questo modo si riusciranno a tutelare definitivamente le acque territoriali italiane.
Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti di tempo. Nonostante, infatti, le società petrolifere non possano più richiedere per il futuro nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso non avrebbero più scadenza certa.
Se si vuole mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere occorre votare “Sì” al referendum. In questo modo, le attività petrolifere andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza “naturale” fissata al momento del rilascio delle concessioni.
Qual è il testo del quesito?
Il testo del quesito è il seguente: «Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?».
È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei “Sì” il risultato venga poi “tradito”?
A seguito di un eventuale esito positivo del referendum, il Parlamento o il Governo non potrebbero modificare il risultato ottenuto. La cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa.
L’obiettivo del referendum è chiaro e mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione referendaria.
Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche prevedere che si torni a cercare ed estrarre gas e petrolio ovunque.
È vero che se vincesse il “Sì” si perderebbero moltissimi posti di lavoro?
Un’eventuale vittoria del “Sì” non farebbe perdere alcun posto di lavoro: neppure uno. Un esito positivo del referendum non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, ogni attività petrolifera in corso.
Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati alle urne il prossimo 17 aprile, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione.
Oggi non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri.
Se, invece, al referendum vincerà il “Sì”, la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni ancora e basta, e cioè fino al 2026.
Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre.
L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe opportuno, al contrario, investire nella ricerca degli idrocarburi e incrementare l’estrazione di gas e petrolio?
L’aumento delle estrazioni di gas e petrolio nei nostri mari non è in alcun modo direttamente collegato al soddisfacimento del fabbisogno energetico nazionale.
Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma lo Stato dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Questo significa che le società private divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano: portarlo via o magari
rivendercelo.
Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto.
Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalty.
Le società petrolifere non versano niente alle casse dello Stato per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas estratti ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo.
Nell’ultimo anno dalle royalty provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati alle casse dello Stato solo 340 milioni di euro.
Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia?
Secondo le ultime stime del Ministero dello Sviluppo Economico effettuate sulle riserve certe e a fronte dei consumi annui nel nostro Paese, anche qualora le estrazioni petrolifere e di gas fossero collegate al fabbisogno energetico nazionale, le risorse rinvenute sarebbero comunque esigue e del tutto insufficienti. Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 8 settimane.
La ricchezza dell’Italia è, in verità, un’altra: per esempio il turismo, che contribuisce ogni anno circa al 10% del PIL nazionale, dà lavoro a quasi 3 milioni di persone, per un fatturato di circa 160 miliardi di euro; la pesca, che si esercita lungo i 7.456 km di costa entro le 12 miglia marine, produce circa il 2,5% del PIL e dà lavoro a quasi 350.000
persone; il patrimonio culturale, che vale 5,4% del PIL e che dà lavoro a circa 1 milione e 400.000 persone, con un fatturato annuo di circa 40 miliardi di euro; il comparto agroalimentare, che vale l’8,7% del PIL, dà lavoro a 3 milioni e 300.000 persone con un fatturato annuo di 119 miliardi di euro e che nel solo 2014 ha conosciuto l’esportazione di
prodotti per un fatturato di circa 34,4 miliardi di euro; e soprattutto la piccola e media impresa, che conta circa 4,2 milioni di piccole e medie “industrie” (e, cioè, il 99,8% del totale delle industrie italiane), e che costituisce il vero motore dell’intero sistema economico nazionale: tali imprese assorbono l’81,7% del totale dei lavoratori del nostro
Paese, generano il 58,5% del valore delle esportazioni e contribuiscono al 70,8% del PIL.
Il solo comparto manifatturiero, che conta circa 530.000 aziende, occupa circa 4,8 milioni di addetti, fattura 230 miliardi di euro l’anno, equivalente al 13% del PIL nazionale, e contribuisce al totale delle esportazioni del Made in Italy nella misura del 53,6%.
Però gli italiani utilizzano sempre di più la macchina per spostarsi. Non è un controsenso?
Ciò che si estrae in Italia non è necessariamente destinato alla produzione del carburante per le autovetture ed ancor meno per quelle in circolazione nel nostro Paese.
Ad ogni modo, gli italiani si trovano spesso costretti ad utilizzare l’auto di proprietà.
A fronte di un sistema di trasporti pubblici gravemente lacunoso non hanno praticamente scelta. In alcuni Paesi del Nord Europa l’utilizzo dell’auto privata è spesso avvertito come un “peso” e ritenuto economicamente non vantaggioso.
Le cose andrebbero diversamente se si perseguisse una seria politica dei trasporti pubblici. Secondo l’Unione europea, rispetto agli altri Stati membri, l’Italia è al riguardo agli ultimi posti.
Cosa ci si attende?
Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia a disposizione dei cittadini italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese.
Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza ONU sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 185 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione.
Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo.
È necessario, nel frattempo, affrontare il problema della transizione energetica, puntando anche sul risparmio e sull’efficienza energetica e investendo da subito nel settore delle energie rinnovabili, che potrà generare progressivamente migliaia di nuovi posti di lavoro.
Il tempo delle fonti fossili è scaduto: è ora di aprire ad un modello economico alternativo.
Perché questo referendum?
Per tutelare i mari italiani, anzitutto. Il mare ricopre il 71% della superficie del Pianeta e svolge un ruolo fondamentale per la vita dell’uomo sulla terra. Con la sua enorme moltitudine di esseri viventi vegetali e animali – dal fitoplancton alle grandi balene – produce, se in buona salute, il 50% dell’ossigeno che respiriamo e assorbe fino ad 1/3 delle emissioni di anidride carbonica prodotta dalle attività antropiche.
La ricerca e l’estrazione di idrocarburi ha un notevole impatto sulla vita del mare: la ricerca del gas e del petrolio attraverso la tecnica dell’airgun incide, in particolar modo, sulla fauna marina: le emissioni acustiche dovute all’utilizzo di tale tecnica può elevare il livello di stress dei mammiferi marini, può modificare il loro comportamento e indebolire il loro sistema immunitario.
Ricerca e trivellazioni offshore costituiscono un rischio anche per la pesca. Le attività di prospezione sismica e le esplosioni provocate dall’uso dell’airgun possono provocare danni diretti a un’ampia gamma di organismi marini – cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei – e alterare la catena trofica.
Senza considerare che i mari italiani sono mari “chiusi” e un incidente anche di piccole dimensioni potrebbe mettere a repentaglio tutto questo.
Un eventuale incidente – nei pozzi petroliferi offshore e/o durante il trasporto di petrolio – sarebbe fonte di danni incalcolabili con effetti immediati e a lungo termine sull’ambiente, la qualità della vita e con gravi ripercussioni gravissime sull’economia turistica e della pesca.

si

ADESIONE AL REFERENDUM SULLE TRIVELLE DEL 17 APRILE

Comunicato stampa

 

Il Circolo di Sinistra Ecologia e Libertà “Fazio Goretti” di Terred’acqua aderisce alla campagna referendaria nazionale di Sinistra Italiana – SEL per il si alla legge che blocca nuove trivellazioni in mare vicino alla costa.

Saremo nei Comuni di Terred’acqua con banchetto informativo

 

Chi volesse collaborare può contattarci a: sel.unioneterredacqua@gmail.com

 

Comunicato stampa

sel tda

Nuovamente la ditta svizzera GUESS comunica l’intenzione di chiudere lo stabilimento Guess service di Crevalcore, mettendo a serio rischio il posto di lavoro dei 30 dipendenti rimasti, per l’85% donne, tutto questo in un periodo di congiuntura negativa che impensierisce maggiormente i dipendenti.

APPOGGIA

i lavoratori nella loro battaglia a difesa del posto di lavoro, apprezzando il senso di responsabilità degli stessi, che non hanno interrotto la propria attività, per spirito di collaborazione, visto che l’azienda è sotto campionario.

CHIEDE

a Paul Marciano, patron del gruppo GUESS di rivedere la prorpia decisione, anche in considerazione del fatto che, l’attività residua a Crevalcore era stato oggetto di un accordo di 2 anni fa, fra proprietà, parti sociali ed istituzioni, con l’impegno di mantenere attivo il presidio di Crevalcore per attività di ricerca e sviluppo stilistico,

SI UNISCE

alle istituzioni locali  in tutte le iniziative che vorranno intraprendere, per la difesa del posto di lavoro dei dipendenti in questione.

Sinistra ecologia LIBERTA’ a sostegno del lavoro  ed a difesa delle lavoratrici e dei lavoratori, sempre piu indifesi e non tutelate dall’introduzione del Jobs Act e dalla cancellazione dell’Art.18

No alla privatizzazione dell’acqua e dei beni pubblici locali

acquaUn altro colpo viene inferto alla volontà dei cittadini chiaramente espressa nei referendum del 2011: quando 26 milioni di concittadini hanno imposto che l’acqua e i servizi pubblici locali siano considerati beni comuni fuori dalle logiche del mercato e della finanziarizzazione.

Oggi, il premio che le norme contenute nella legge di stabilità concedono ai comuni è quello di utilizzare i proventi delle vendite delle azioni delle partecipate pubbliche fuori dal patto di stabilità. Si tratta di un chiaro incentivo verso un percorso di privatizzazione dei beni comuni come l’acqua e dei servizi pubblici locali.

Scendere sotto il 51% di proprietà pubblica in aziende come HERA o le altre società decisive per l’erogazione di servizi pubblici locali che garantiscono diritti umani fondamentali come l’acqua, rappresenta un punto di non ritorno per la loro privatizzazione.

Significa per le amministrazioni pubbliche cedere campo libero alla gestione finalizzata al profitto e dominata dalla finanza.

Significa rinunciare a gestire la cosa pubblica negli interessi dei cittadini, dei lavoratori, del territorio nel suo insieme.

Significa accettare il progressivo aumento delle bollette e la riduzione degli investimenti, a favore dei dividendi distribuiti agli azionisti.

Non ci sono ragioni accettabili in questo processo di espropriazione,  né politiche, né di bilancio.

Proponiamo invece che il pubblico si riappropri del governo del territorio con l’obiettivo di svolgere, anche attraverso le proprie aziende, una funzioni anticrisi e di riconversione ecologica ed ecosostenibile del sistema territoriale e di creazione di buona e stabile occupazione.

Investimenti nelle reti idriche, qualità dell’aria delle città, trasporti pubblici ecosostenibili, riciclo e riuso dei rifiuti, energie alternative, dissesto idrogeologico, bonifica dell’amianto, ristrutturazione degli edifici e recupero e riutilizzo delle aree industriali dismesse in alternativa a nuove cementificazioni e consumo del territorio, sono i campi su cui rilanciare il nostro sistema sociale ed economico.

Chiediamo pertanto ai sindaci che hanno intrapreso questo percorso, di invertire la rotta e onorare la carica pubblica di cui sono stati investiti, decidendo invece di avviare una riflessione partecipata sul futuro di questi servizi, nel contesto della crisi nella quale siamo immersi: crisi economica, sociale ed ambientale, che richiede nuove risposte e una democrazia partecipata all’altezza.

Contratto a tutele crescenti

job actAll’inizio furono i due economisti Tito Boeri e Pietro Garibaldi a parlarne su lavoce.info. Era il 2003. Poi dalla dottrina si passò alla pratica e l’idea del contratto unico a tutele crescenti diventò una proposta di legge quattro anni dopo nel 2010. E’ stato poi il senatore Pietro Ichino a riprendere la proposta facendola diventare uno dei pilastri della nuova riforma del mercato del lavoro per approdare nel Jobs Act. La differenza tra la proposta Ichino e quella Boeri/Garibaldi è che la prima non prevede l’obbligo di reintegro cioè l’obbligo del datore di lavoro di un’azienda (con più di 15 dipendenti) di reintegrare il lavoratore licenziato senza giusta causa.

INDETERMINATO, MA… – E’ un contratto a tempo indeterminato e dà la possibilità al datore di lavoro di interrompere il rapporto in qualunque momento e senza motivazione nei primi tre anni. L’unica incombenza è il preavviso che può variare a seconda del contratto. La novità rispetto ai contratti a termine attuali è che non vi è data di scadenza. Cosa non da poco per il lavoratore che evita così lo psicodramma all’avvicinarsi del termine.

ART.18 E INDENNITA’ – In pratica, in questi primi tre anni l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non si applica ad eccezione dei licenziamenti discriminatori. Si considera questo tempo come un lungo periodo di prova. Si tratta di un contratto a tempo indeterminato con meno garanzie, garanzie che crescono con il passare del tempo. Nel caso in cui il datore di lavoro decidesse di licenziare il lavoratore durante i tre anni a questo spetterà un’indennità in denaro pari (ad esempio) a 15 giorni di retribuzione ogni tre mesi. Grazie a questo sistema quindi licenziare un dipendente costerà sempre di più con il passare del tempo.

DUE FASI: INSERIMENTO E STABILITA’ – Il contratto unico deve prevedere quindi due fasi: l’inserimento e la stabilità. La prima dura per i primi tre anni di contratto. In questa fase, come detto, il licenziamento può avvenire dietro compensazione monetaria, ad eccezione dell’ipotesi di licenziamento per giusta causa. In caso di discriminazione si applica la tutela dell’articolo 18. Superata la fase di inserimento, il contratto unico viene regolato dalla disciplina dei licenziamenti oggi vigente. Per le aziende con più di quindici dipendenti, si applica quindi la tutela reale prevista dall’ordinamento esistente. Per le aziende con meno di quindici dipendenti, si applica la disciplina relativa alla tutela obbligatoria.

UN CONTRATTO APERTO – Nel contratto a tutele crescenti, i lavoratori vengono assunti con un contratto ‘aperto’. “Avere un contratto a tempo indeterminato non significa però che esso non possa essere interrotto”, spiegano Boeri e Garibaldi, “vi è spesso grande confusione su questa differenza. Il matrimonio è un contratto tra due persone a tempo indeterminato. Quando ci si sposa non si mette mai un termine all’unione. Tuttavia il matrimonio, pur essendo a tempo indeterminato, può essere interrotto. Il divorzio, una circostanza che nessuno si augura, rappresenta l’interruzione di un contratto a tempo indeterminato. Anche il nostro contratto unico può quindi essere interrotto. L’idea è che quando l’impresa decide di interrompere, specialmente nei primi tre anni, deve corrispondere ai lavoratori un indennizzo monetario, che in questo primo triennio aumenta con l’anzianità aziendale”. Quello dell’indennizzo monetario non è un dettaglio irrilevante, specialmente se paragonato alla situazione esistente: oggi né gli atipici né gli occupati a tempo determinato hanno diritto ad alcun indennizzo alla scadenza del contratto.

APPLICABILE A TUTTI – Altro dettaglio importante: contrariamente all’apprendistato, il contratto unico è applicabile a tutti, non soltanto agli under 30, quindi facilita l’ingresso delle donne dopo il periodo di maternità e il reintegro di lavoratori più anziani. E non prevede riduzioni dei contributi previdenziali, come avviene per l’apprendistato. Il periodo di inserimento assorbe anche il periodo di prova. Oggi, durante il periodo di prova (che può durare fino a sei mesi), si può essere licenziati senza preavviso e senza alcun indennizzo. In caso di interruzione involontaria del rapporto di lavoro il contratto unico prevede un indennizzo monetario fin da subito. Nel periodo di inserimento, il lavoratore viene tutelato dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori per quanto riguarda il licenziamento disciplinare e discriminatorio, ma soltanto dalla protezione indennitaria (che gli riconoscerebbe da due a sei mesi di salario, e non la reintegrazione nell’azienda) nel caso di licenziamento economico. Alla fine del terzo anno, la tutela reale, cioè il reintegro nel caso di licenziamento, viene estesa anche al licenziamento economico se il lavoratore è assunto in un’impresa con più di quindici addetti. A questo punto per l’azienda, che ha già investito molto nel capitale umano del lavoratore, sarebbe comunque molto costoso interrompere il rapporto di lavoro. Il contratto unico dovrebbe assorbire la stragrande maggioranza delle assunzioni.

(fonte AGI)

Divieto di Passante (Nord)

passanteSi dimostri prima l’utilità e l’interesse pubblico e poi eventualmente si discuta, secondo i principi della partecipazione, delle soluzioni tecniche ed economiche.

Questo crediamo dovrebbe essere lo spirito che guida le scelte della politica, in particolare se si parla di realizzare grandi infrastrutture o urbanizzare parti di territorio dove vivono comunità di persone. Nel caso del passante nord si realizzerebbero entrambe gli scenari: la posa di una grande infrastruttura e l’inevitabile urbanizzazione diffusa che ne deriverebbe.

Il territorio non è infinito, e soprattutto è prezioso. Prima di impedire la coltivazione di 8000 ettari di terreno agricolo e fertile, questa sarebbe l’entità dell’area di rispetto preclusa all’agricoltura biologica, piazzandogli sopra una muraglia di circa 40 Km e alta 3,7 metri, altezza del rilevato necessario per difendere il nuovo tracciato dalle alluvioni (!!), forse dovremmo davvero interrogarci con tutta la buona fede se questa opera sia davvero indispensabile. Non è possibile individuare soluzione alternative e meno impattanti per decongestionare il traffico su gomma che gravita attorno al nodo di Bologna ? Noi crediamo di si, ad esempio lavorando davvero per spostare parte di quel traffico su rotaia.

Fin dall’inizio del progetto siamo stati fermamente contrari alla realizzazione di questa opera, come già espresso nel post Il passante nord è inutile e distruttivo dove Fausto Tomei, evidenzia le maggiori criticità di questo progetto. Qui le riepiloghiamo per punti :

1. L’opera si basa su una previsione di incremento del traffico che non c’è stata e che le ultime stime (di società Autostrade) dicono che non ci sarà.

2. A chi crede che la realizzazione del passante servirà ad ampliare il tracciato della tangenziale ricordiamo che tangenziale e autostrada attuale non verrebbero unite per divenire a 5 corsie, come erroneamente si crede, il passante è solo una integrazione a due corsie dell’autostrada. Le corsie dell’autostrada attuale e della tangenziale resterebbero separate, con 4 punti di bypass e un complesso sistema di pagamento.

3. La società autostrade valuta un 12% di traffico leggero intercettato dal passante, nessun miglioramento sostanziale per la tangenziale di Bologna (che resterebbe a due corsie) e una probabile crescita del 6% del traffico di TIR sulla viabilità ordinaria.

4. Richiede tempi di realizzazione lunghissimi: 40 km di attraversamenti stradali, ferroviari/fluviali/gallerie, espropri e contenziosi legali, acquisizione dati e studi da completare.

5. Aumento complessivo delle polveri sottili e CO2 emessa.

6. I modesti vantaggi del Passante Nord si otterrebbero solo al termine di tutta l’opera mentre per molti anni la situazione del traffico peggiorerebbe anche a causa dell’interferenza dei cantieri sulla viabilità normale

7. Monopolizzerebbe in un’unica inutile opera enormi investimenti ( 1.860 milioni di euro) sottraendoli ad altre opere importanti e urgenti che risolverebbero singole criticità in numerosi punti della città e della provincia.

8. Divora 750 ettari di territorio cementificandolo per sempre e sottraendo 8.000 ettari all’agricoltura biologica o integrata.

9. Esistono soluzioni più efficaci e molto meno costose come quella sviluppata dal Comitato per l’Alternativa al Passante Nord di Bologna.

La totale INUTILITA’ trasportistica dell’opera è sancita dal parere anche della stessa società autostrade.

Il movimento che si oppone al passante sta crescendo coinvolgendo in questi ultimi mesi anche i livelli istituzionali con riunioni sull’argomento e consigli comunali aperti nei comuni interessati (Zola Predosa, Calderara, Argelato, Bentivoglio, Castelmaggiore, Granarolo, Castenaso, Budrio, Sala Bolognese, San Lazzaro e Bologna). Tutti i sindaci, tranne quello di Bologna, hanno firmato un appello affinché “venga realizzato uno studio attualizzato da parte della Città metropolitana e della Regione, prima che si avvii la progettazione preliminare, da cui dovrà prendere le basi di lavoro”.

Nell’appello si legge anche si potrà cominciare a discutere del passante “solo se sarà dimostrato che serve e che avrà un valore strategico. E poi vogliamo dire a coloro che dicono che ‘bisogna fare a prescinderè, che noi invece non faremo mai a prescindere” ma “solo se la comunità bolognese avrà un evidente vantaggio”. SEL non può che essere felice di questa presa di posizione che naturalmente condivide. Inoltre il 29 gennaio 2015 il consiglio comunale di Castenaso, durante una affollatissima assemblea, ha approvato all’unanimità la mozione condivisa da tutti i gruppi consiliari che dichiara “la propria contrarietà alla realizzazione del cosiddetto passante nord e si adopererà in ogni sede per evitare ogni ulteriore spreco di denaro e risorse pubbliche”.

Federico Grazzini – Responsabile Ambiente SEL Bologna

COMUNICATO STAMPA

sel tda

Il circolo di sinistra ecologia LIBERTA’ “Fazio Goretti” di  Terred’acqua condanna il grave gesto compiuto da Forza Nuova, espressione dell’estrema destra neofascista, nei confronti di un cittadino anzolese di origine siriana, tali attiantidemocratici e di chiaro stampo fascista  non deve trovare terreno fertile in una comunità che si rispecchia nei  valori della democrazia .   In un paese come il nostro che per 20 anni ha dovuto subire il pesante gioco fascista, non può non condannare simili episodi e stringersi attorno al cittadino siriano così pesantemente ferito

anzola

Bici gratis sui treni regionali?

biciTrenoSEL Bologna, tramite il forum ambiente e i suoi consiglieri comunali e regionali, si è subito attivata per reintrodurre l’abbonamento per il trasporto bici sul treno, cancellato a dicembre 2014, durante una ulteriore fase di automazione digitale del servizio di emissione biglietti. Il fatto ci è stato segnalato da Sara Poluzzi, una pendolare che da 8 anni sfrutta con successo l’intermodalità dei mezzi pubblici caricando la bici sul treno ad un costo accessorio di 120 euro annuali oltre all’abbonamento personale . La cancellazione dell’abbonamento comporta un aggravio di oltre 700 euro. Questa decisione, dovuta al decadimento di un accordo Fiab – Trenitalia va decisamente contro la logica di incremento del trasporto sostenibile che invece la Regione dovrebbe pervicacemente sostenere in tutte le sue forme.

Sara ha dato vita ad una petizione su Change.org, indirizzata a Trenitalia, che ha riscosso un enorme successo, raccogliendo oltre 50.000 firme in dieci giorni. L’alto numero di adesioni è una dimostrazione evidente le che persone, sia per i costi elevati del trasporto privato, sia per una sempre maggiore coscienza ambientale, stanno puntando sempre di più sul trasporto pubblico o sulla bicicletta per i movimenti nelle città o casa-lavoro.

Trenitalia da parte sua ha risposto alla petizione che nulla impedisce la reintroduzione dell’abbonamento ma che la decisione spetta alla Regione. “Ciascuna Regione infatti, nell’ambito del contratto di servizio con le imprese ferroviarie- dice la nota- puo’ autonomamente stabilire anche l’introduzione di forme di abbonamento particolari per i servizi di propria competenza, incluso quello che prevede il trasporto delle bici a bordo dei treni regionali. Nulla preclude l’autonoma scelta delle singole Regioni di stabilire forme di abbonamento o altre agevolazioni per il trasporto delle biciclette sostenendone il costo”-scrive Trenitalia.

Sulla base di questo quadro normativo SEL sta ultimando ulteriori approfondimenti per arrivare a formulare una richiesta, che sarà presentata all’Assessore ai Trasporti regionale il 22 gennaio prossimo, in concerto con Fiab e l’associazione Salvaciclisti. Tale richiesta verterà non solo su il ripristino dell’abbonamento (atto minimo) ma su una revisione dell’intera regolamentazione del trasporto bici sul treno tesa a rimuovere gli ostacoli attualmente presenti. In particolare occorrerebbe uniformare le pratiche nelle varie regioni e per i vari enti gestori (Trenitalia, FER e altri in altre regioni) e soprattutto andare verso l’abolizione del biglietto per la bicicletta. Quest’ultima decisione, tecnicamente fattibile e già adottata in alcune regioni, rappresenterebbe davvero un concreto segno, un deciso cambio di rotta, verso un trasporto pubblico che rispecchia le esigenze dei cittadini, siano essi pendolari, turisti o semplici viaggiatori occasionali. Soprattutto rappresenterebbe un cambio di rotta rispetto agli anni precedenti caratterizzati, in Emilia-Romagna, da una riduzione del trasporto regionale di trasporto bici che è passato da una copertura del 85% dei convogli nel 2011 al 45% nel 2012. A tale decisione dovrebbe infatti corrispondere un opportuno incremento dei vagoni destinati al trasporto bici o l’istituzione di fasce orarie dedicate. Una migliore regolamentazione di questo servizio potrebbe a significativi effetti anche sull’indotto turistico come dimostrano le cifre riportate da altri paesi. L’indotto cicloturistico, favorito da una capillare rete di trasporti pubblici, assomma a circa 1 milione di presenze in Austria e a 4,7 milioni in Svizzera per un fatturato rispettivamente di 45 milioni di euro e 95 milioni di euro. Daremo battaglia !!

Vedi anche Presentato un disegno di legge sulla moblità ciclabile

Forum Ambiente SEL Bologna